C'è
la mia anima nella valle
in
cui magica è la luce in accordi d'acqua tersa
che
diventano compagni nei riflessi di quei giorni
della
festa del castagno...
amplesso
di ciò che la natura offriva
nel
togliere il suo velo
ad
un disegno che faceva stare bene.
Un
tuffo nel passato
dove
danzano le immagini
tra
lenzuola lavate e stese al sole
ondulate
appena dal saluto al vento,
che
scostava ciocche
ad
una donna china sulla cesta del bucato...
con
i suoi seni bianchi esposti...
unguento
sulla pelle e balsamo per un infante
che
si nascondeva apposta per scoprirla in quell'oltre,
dove
il confine della gonna
si
fermava ai reggenti dei miei certi affanni.
E
in un passaggio di parole di un suo canto
il
silenzio mi prendeva fuori tempo
modulato
dai profumi di quei campi
nel
miscuglio dei pensieri vagabondi
mentre
spiavo quelle grazie dell'autunno
e
sognavo d'incrociare il suo sguardo
anche
solo per un'istante
per
offrirle il morboso bacio sulla bocca.
La
danza del silenzio nei respiri soffocati,
dolce
e pia sequenza di un fanciullo innamorato
di
un sogno troppo grande...
era
figlio di una voglia di scoprire il sesso
con
lei che mi sorprendeva
in
quel bucato troppo lindo
confuso
ed estasiato
nei
sospiri miei più profondi.
Poi,
all'improvviso un uomo alle sue spalle
conturbò
quel silenzio nella valle...
uno
con la giacca verde
a
calpestare il muschio con gli stivali grandi
e
dietro a lui, soldati a piedi
in
un ritorno forestiero
dove
il fiume aveva il sangue dello straniero.
Ricordo
quell'odore acre e quei calci nello sterno,
le
urla della donna nella violenza di quel giorno
e
io che non capivo.
Dicevano
ch'era una puttana e se lo meritava
sol
perché per un pugno di farina
aveva
accolto lo straniero
e
quelli, la sera prima,
furono
selvaggi, oltre al bosco
in
un misero villaggio.
Ma
per me era solo una donna stretta dentro il suo bisogno
di
sopravvivere al destino,
e
in fondo, anche lei aveva figli da sfamare
e
anche di quel poco da sognare.
Guardai
a turno consumare quel vil pasto
come
belve affamate sulla preda...
io
che adesso sono un prete
e
mi vergogno della danza del silenzio
che
mi prese in quello strazio troppo grande
nel
veder quelle lenzuola macchiate
dal
suo sangue.
E
la finirono al vespro della sera
con
la scusa di una guerra che la vista appanna...
e
che quella donna non era che un inganno,
una
che non doveva poi svegliare il sonno
di
un istinto un po' animale.
Ma
per me era solo un sogno troppo grande...
una
che piegata al suo bucato
e
con i seni bianchi esposti
mi
lasciava senza fiato
nel
remoto tempo di uno sfogo al vento.
Guardai
la scena chiudersi col rimorso
nascosto
tra le foglie del castagno sanguinante
a
quelle impronte ferme che calpestavano il silenzio
mentre
se ne andavano tutti quanti...
e
fu allora che la pietà mi avvolse
come
un pugno nello stomaco disciolto
ad
un vigliacco
che
non s'era fatto uccidere con lei
in
quel ritaglio capovolto.
La
coprii con un lenzuolo contemplando il volto
e
la baciai sulla bocca con un pianto a tratti rotto.
E
nella danza del silenzio
in
cui magica è la luce
in
accordi d'acqua tersa,
quel
novembre torna come spettro
mentre
ricalco il ritorno nella valle
per
depositare fiori in quel sogno rotto dall'inganno.
Andrea
Iaia